1972 Critico d’Arte
Il mondo poetico di Antonio Granato possiede un suo fascino inquietante.
E’ un’inquietudine che deriva dalle troppe sollecitazioni che si esercitano, oggi, sull’uomo.
Un giovane, provvisto d’un sorprendente istinto narrativo che trova nel segno il modo d’esprimersi con rara efficacia, non può certo sottrarsi al fascino di tutto ciò che di magico, ma anche di ossessivo, d’orrido ci insegna o ci perseguita.
Anzi, e questo è il caso del nostro artista, giovanissimo ad onta delle singolari qualità disegnative, della persino conturbante sapienza con cui domina il mezzo espressivo, una simile situazione lo porta al tempo medesimo a cercar rifugio sia nella favola come nella natura e ad estrarre dal sogno o dalla visione quei motivi dai quali balza evidente l’angosciosa consapevolezza d’una condizione umana posta sul limite della psicosi.
Ma proprio nel momento in cui egli ne afferra il dramma, ecco sorgere la necessità di comporlo con una disperata ansia d’abbandono, con un lirismo che può esserci suggerito solo dalle seduzioni della natura, del sentimento.
Non v’è, in ciò, nulla di romantico, bensì una lucida percezione del valore e della funzione della fantasia in un’epoca nella quale la distruzione fine a sé stessa sembra l’unico scopo di un’umanità alienata.
Allora il recupero della vita vegetale ed animale, il ritrovamento d’un contenuto ai fatti dello spirito, lo stesso grido d’allarme, o d’invocazione, che si leva d’improvviso, posseggono un significato di riscatto ed aprono la via d’una ricerca al cui traguardo ritroviamo sempre le componenti indeliniabili d’ogni verità poetica: l’uomo e la natura.